Lo strano dittico La Voix humaine-Gianni Schicchi piace al pubblico barese
Quando Michele Puccini nel 1864 morì ad appena 51 anni, il posto di organista e maestro di Cappella del Duomo di Lucca, sino ad allora ricoperto dal defunto, venne affidato al cognato Fortunato Magi, affinché lo serbasse fino a quando il figlio di Michele “il signor Giacomo Puccini” sarebbe diventato abile a disimpegnarsi in tale ufficio. Giacomo, quando muore il padre, ha infatti appena cinque anni ed è il quinto di otto pargoli, ma è già un predestinato, avendo alle spalle ben cinque generazioni di musicisti, tutti rigorosamente organisti del Duomo della ridente cittadina toscana. La mamma affida la sua educazione musicale al fratello Fortunato, il quale però è tutt’altro che un paziente ed affettuoso come maestro. Appena il piccolo Giacomo sbaglia una nota, o peggio stona, lui è infatti lì pronto che assesta un paio di calci negli stinchi del poveretto. Chissà, pensavo mentre l’altra sera sul palcoscenico del Teatro Piccinni di Bari, si apriva il sipario sul Gianni Schicchi del Nostro, come si sarà sentito, il piccolo Giacomino, i quei momenti terribili. “Costretto” a 5 anni a diventare organista per forza come suo padre, suo nonno, suo bisnonno e via dicendo…risalendo sino al 1712, anno in cui al vertice dell’albero genealogico familiare c’era proprio un Giacomo, il primo. Oltre a quelle botte, Giacomino subì, tra l’altro, il trauma ancor più allucinante che tutte le volte che da adulto e consacrato operista di fama mondiale, sentiva qualche cantante stonare o comunque sbagliare un paio di note, lui immediatamente avvertiva una fastidiosissima contrazione nervosa alle gambe. Il "Gianni Schicchi", si sa, è un atto unico. Cinquanta minuti di testo e musica indimenticabili. Un piccolo insuperato capolavoro di sintesi della commedia musicale che dalle prime farse della gloriosa “Scuola” napoletana arriva, cavalcando il tempo, sino al luminoso paradigma del Falstaff verdiano. Insieme a "Tabarro" e "Suor Angelica" lo Schicchi fa parte di un Trittico che andò per la prima volta in scena al Metropolitan di New York il 14 dicembre del 1918. Oggi, è sempre più raro - grandi teatri e festival a parte - che il Trittico pucciniano venga rappresentato in una sola serata. Qui a Bari la Fondazione Petruzzelli, per mano del suo attuale sovrintendente e direttore artistico Giandomenico Vaccari, ha affiancato al Gianni Schicchi un altro atto unico, “La Voix humaine” di Francis Poulenc che – almeno in apparenza - non sembrerebbe proprio un accostamento felicissimo, soprattutto da un punto di vista musicale. Eppure, attraverso una chiave di lettura di rara intelligenza, anche se non priva di qualche forzatura, Walter Pagliaro regista di entrambi gli allestimenti, ha saputo confezionare uno spettacolo di qualità. Il dittico, pur insolito nell'accostamento, diventa straordinariamente efficace nel delineare due aspetti primari dell’eterna “commedia umana”, messi in musica, va detto, da due grandi compositori, entrambi sensibili interpreti dell'animo femminile. Un punto di contatto ulteriore poi ci sarebbe: entrambe le opere si svolgono in una camera da letto, ma Pagliaro non raccoglie questa per lui evidentemente scontata dimensione narrativa e soprattutto nella "Voix humaine", la tragedia lirica in un atto di Jean Cocteau sonorizzata (è proprio il caso di dire) da Poulenc, costruisce una sorta di macabro parallelepipedo nel quale la solitaria protagonista femminile (qui interpretata dalla cantante spagnola Blancas Angeles Gulin) dà vita al suo personale psicodramma telefonico. Dall’altro capo del filo c’è un amante che vuole disfarsi di quest’amore diventato troppo scomodo e inutile, fatto com’è di sotterfugi, menzogne, ipocrisie. Non sentiamo nell’atto unico di Poulenc la voce di chi sta all’altro capo dell'apparecchio, ma possiamo cogliere dagli stati d’animo, in drammatica e crescente evoluzione della donna, quali siano le risposte e le domande che arrivano attraverso la cornetta. La musica segue il canto, talora declamato, talora fraseggiato, talora recitato come in una colonna sonora di un film di Alfred Hitchcock (pensavo a “Psycho”, per esempio) o in un Pelleas "riletto" al quadrato. Si sente progressivamente giungere il profumo della morte che invade la scena con il rosso del sangue inizialmente colante dal naso della donna e che poi invade espandendosi tutta la scena. Una dimensione scenica che si fa dunque, nelle valide intenzioni del regista, luogo-spazio della mente. La sensualissima Gulin ha interpretato con impalpabile fragilità attoriale e insieme forte, intensa personalità vocale il ruolo che fu in teatro e al cinema di Denis Duval, Ingrid Bergman, Anna Magnani, Simon Signoret. Dal canto suo il trentenne direttore d’orchestra Antonino Fogliani ha saputo restituire la “Pièce” del tandem Cocteau-Poulenc con rara chiarezza e sempre lucida partecipazione, ben coadiuvato nel non agevole compito dall’orchestra sinfonica barese. Molta attesa c’era poi per il Gianni Schicchi, che occupava la seconda parte della serata. Dopo l’ultima apparizione al Teatro Petruzzelli nella stagione 1990-91 con il “Simon Boccanegra”, il grande baritono Leo Nucci mancava a Bari da ben sedici anni. L'attesa è stata ripagata da una superlativa performance del cantante bolognese nel ruolo eponimo, apparso nonostante i suoi quarant’anni di carriera e i ben sessantacinque all’anagrafe, in splendida forma. Si sono poi distinti, tra gli altri, Roberta Canzian nel ruolo di Lauretta (esemplare nella romanza “O mio babbino caro”, il momento più autenticamente melodico dell’opera) il giovane tenore spagnolo Antonio Gandia (Rinuccio) e Cinzia De Mola (una eccellente Zita). Ben scelti anche gli altri cantanti del cast. Abile, anche qui, Fogliani nel condurre in porto l’opera con una vibrante e sorprendente intelligenza interpretativa. Meno, invece, ci è piaciuta la regia di Pagliaro in questo Schicchi. Il regista barese ha infatti offerto una chiave di lettura un po' troppo personale dell’opera, facendole attraversare (ambientandola nei primi anni del novecento) con un maestoso triplo salto mortale ben…settecento anni di Storia. Si sa che è ormai diventata abitudine abbastanza dura a morire quella di mettere – a tutti costi - sempre più spesso il proprio “imprinting” agli spettacoli, trasformando testi teatrali e musicali in cose diverse da quel che sono. Le attualizzazioni sono dunque all’ordine del giorno. Se sei un rispettoso tradizionalista oggi, così pare, non vai da nessuna parte. L’alibi dei registi è sempre lo stesso: avvicinare il più possibile il pubblico (giovanile e non) alla storia che viene raccontata in palcoscenico. Chi scrive non è - per carità! - un tradizionalista, ma perché voler dare sempre e solo una lettura ideologica (possibilmente “di sinistra”) a una vicenda come questa, per esempio, che appartiene in definitiva al lontanissimo Medio Evo, quando non c’era peraltro la frammentaria e spesso vuota politica di oggi? D’accordo: le tematiche che attraversano il Gianni Schicchi sono eterne. Ma, le camicie nere, o se preferite, Mussolini e i fascisti che si intravedono nell’ultimo quadro dalla finestra di Casa Donati rappresentano, a mio parere, una "solenne" forzatura. Cosa c’entrano allora i fascisti con la “gente nuova”alla Schicchi? Schicchi semmai è invece l'icona di una classe "borghese"( tra virgolette naturalmente), di cui peraltro lo stesso Rinuccio tesse le lodi nella sua breve romanza iniziale, citando Giotto e Lorenzo de'Medici. Alla fine, giusti e calorosi consensi per tutti: in particolare per Nucci, Fogliani e Canzian.
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