Quartetto Kodaly: una lezione di stile e civiltà musicale
Non so quanto sia bello per voi dover scegliere tra quattro, anche cinque diversi concerti di musica classica o "forte" (per dirla con l'esimio musicologo e germanista Quirino Principe: anche lui diventato da circa un anno un entusiasta blogger di una nota rivista musicale) nello stesso giorno ed alla stessa ora, per me è quasi una tragedia che talora può anche sfociare in una sorta di psicodramma individuale. Certo è che ieri nella mia Bari (che non è ne Milano, nè Vienna, nè Berlino) mi sono trovato in questa delicata situazione: inaugurazione della stagione del Collegium Musicum, recital di un ottimo pianista (Cultrera) per il Coretto, Orchestra della Provincia ad Altamura (a 45 km, più o meno, da Bari), Muti che "dirige al...cinema" la Betulia liberata di Mozart ed infine il Quartetto Kodaly al Teatro Piccinni per la stagione della Camerata Musicale Barese. Ho scelto quest'ultimo concerto, facendo torto (ahimè) agli altri quattro appuntamenti, ma - lo confesso spudoratamente - non me ne sono pentito. Il concerto del Kodaly Quartet è stato infatti bellissimo, rivelandosi (ancora una volta, ove ce ne fosse stato bisogno) che la musica da camera per piacere bisogna lasciarla fare a chi la sa fare. Davvero. E non c'è il minimo dubbio che i componenti del Kodaly (da ben trent'anni insieme) nell'impaginato quanto attraente programma di ieri sera ne abbiano offerto ampia dimostrazione, con l'ausilio nel pezzo di Schumann del valido pianista romano Francesco Mario Possenti. Dalla salottiera galanteria del Quartetto in sol maggiore op.54 di "Papà" Haydn si è passati al godibile quanto coinvolgente ascolto del romanticissimo "Americano" di Dvorak: entrambi riletti, oltre che con rara pulizia tecnica e sonora, con un affiatamento, un respiro unico e solidale, un "sapersi ascoltar l'un l'altro", da togliere il fiato. Nella seconda parte altrettanto esemplare, nel suo pur non comune approccio - più delicato che irruente, più sensibile che viscerale - l'interpretazione del sublime Quintetto per pianoforte ed archi di Robert Schumann, in cui emerge appieno l'amore dell'artista sassone per Bach, nell'uso sapiente del contrappunto e della fuga. Successo convincente e meritatissimo. Bis di rito con l'ultimo scorcio del trascinante "allegro ma non troppo" del quintetto.
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