blog di informazione e critica musicale a cura di Alessandro Romanelli

lunedì, giugno 09, 2008

Intervista ad Alessandro Zignani

Giornalista, scrittore, sceneggiatore, drammaturgo, musicologo, germanista e quando poi ha tempo (ma dove lo trova?) va persino a dirigere un’orchestra in Olanda. Attualmente è docente di Storia della Musica ed Estetica Musicale presso il Conservatorio di Monopoli, ma ha un recente passato come insegnante di Liceo Classico e docente universitario di Storia della Cultura Tedesca. Questa è, a dire il vero, solo un’impietosa (per non dire brutale) sintesi alla domanda: “Who is Alessandro Zignani?”. Ci sarebbe, infatti, da aggiungere molto di più. Del resto, quando lo incontrai per la prima volta l’anno scorso qui a Bari, durante la presentazione di un libro a "Casa Giannini", mi parve subito di trovarmi di fronte a una specie di…extraterrestre. Zignani, classe 1961, nato a Rimini possiede della "stirpe" romagnola la parlantina schietta, la battuta pronta (talora ironica o addirittura salace, secondo i casi) e un brillante eloquio da comunicatore nato. Tra le sue innumerevoli qualità, quest’ultima è forse quella che immediatamente più colpisce e lo rende simpatico. Ha appena scritto, dopo quelle apprezzate su “mostri sacri” del podio quali Mitropulos e Furtwängler una bella monografia sul più grande direttore d’orchestra del Dopoguerra, Herbert von Karajan (pubblicata dalla Zecchini di Varese) e un ponderoso viaggio alle origini della musica europea in 523 pagine intitolato “Le Città della Musica” (Florestano Edizioni di Bari). Qualche settimana fa gli ho chiesto di rilasciarmi un’intervista. Sapevo bene a cosa potevo andare incontro con l’“extraterrestre” Zignani, ma ho rischiato lo stesso e armato solo di un obsoleto (badate: ancora ben funzionante) registratore a cassetta Sony l’ho affrontato a viso aperto. *************************************************** Quando e come nasce la sua passione per la musica? “Di solito la musica ti trova, non la vai a cercare. A me, per esempio, è successo ascoltando gli arrangiamenti di Waldo Delosrios, che all’epoca faceva queste orrende riletture moderne della musica classica, con sotto l’accompagnamento ritmico della batteria. Del resto, in casa mia nessuno amava la musica o si occupava di arte in generale. Era una famiglia semplice e di livello culturale basso e loro dunque ascoltavano Beethoven e Ciaikovskij in queste versioni tremende. A dodici anni ero un po’ stufo di Delosrios – devo però ammettere in fin dei conti che lui mi aveva cambiato la vita - e volevo che i miei genitori mi comprassero un disco vero delle sinfonie di Beethoven, Ciaikovskij e Dvořák. In particolare, desideravo un’incisione di quella cosiddetta sinfonia “Dal Nuovo Mondo”, ossessionato dal bisogno di sapere quale fosse poi questo benedetto nuovo mondo. Fu così che scoprii, pur attraverso mediocri edizioni discografiche, che il linguaggio di quei musicisti del passato era il mio; rividi, riascoltai in sostanza, un mondo musicale che mi era già familiare. Era come se, in un certo senso, ne fossi stato espulso e poi l’avessi finalmente ritrovato.” Si è mai chiesto, anche dopo molti anni, il perché di quella sua ritrovata familiarità con la musica ? Lei crede ci possa essere una sorta di predestinazione in questo ? “Non so se sarebbe il caso di usare la chiave esoterica, ma quella della cosiddetta predestinazione è un ipotesi plausibile. Del resto come sarebbero altrimenti spiegabili i casi di Mozart e Schubert, capaci di suonare e comporre musica (e che musica!) sin dalla più tenera età? Mozart, per esempio, a otto anni già padroneggiava violino, organo e clavicembalo. Tornando alla sua domanda, per me è stato un ritrovarsi con questo tipo di linguaggio astratto, dei simboli che diventano suoni e non del contrario come si pensa.” I suoi studi musicali ? “L’aver scoperto la musica solo a 12 anni mi ha impedito di possedere e di conseguenza sviluppare la necessaria manualità per diventare un musicista di professione. Ho studiato il clarinetto, il violino e il pianoforte per cinque anni, ma non sono mai diventato uno strumentista.” Tra gli innumerevoli ascolti della gioventù qual era il compositore che amava di più? “Su questo non ho dubbi nemmeno oggi. E’ Mahler, Gustav Mahler. La musica degli altri è bellissima, l’ammiro e quant’altro, ma quella di Mahler è come se l’avessi scritta io. In sostanza, non compongo perché c’è già stato lui a farlo per me.” Ci spieghi meglio il senso di questa affermazione, partendo magari dal suo primo incontro-approccio con la musica di Mahler. “Be’, avevo quindici anni e mi ero rifugiato annoiatissimo in automobile ad ascoltare la radio, durante gli estenuanti festeggiamenti di un battesimo tipicamente romagnolo, quando di colpo sento una cosa che riconosco come un linguaggio della mia anima, del mio inconscio. Rappresentava qualcosa che io sapevo di essere ma non riuscivo a dire. Alla fine, in un rapimento assoluto, ho scoperto che si trattava del Titano di Gustav Mahler; il giorno dopo sono andato di corsa a comprarmi il disco. La cosa strana è che già a quell’età capii l’aspetto parodistico e la bellezza sardonica di questa musica. Avevo insomma quell’atteggiamento alla russa di vedere sempre l’aspetto tragico nel grottesco.” Si potrebbe dunque dire che Mahler e la sua musica hanno segnato un’autentica svolta nella sua vita? “Sì, ricordo anche che ascoltando la Terza Sinfonia e in particolare navigando nel suo finale ero praticamente uscito fuori di testa. La Settima invece non sono riuscito a capirla per anni e adesso è in fondo quella che amo di più. D’altronde, va detto, è anche la più enigmatica delle sinfonie mahleriane.” Ed è allora che è arrivata anche la passione per l’orchestra e dunque per la direzione d’orchestra? “Adoravo seguire le prove d’orchestra dei maestri che passavano al Teatro Comunale Bologna, mentre studiavo all’università. Da autodidatta ho imparato molto presto, attraverso la manualistica disponibile, a leggere le partiture e ad approfondire l’orchestrazione, ben prima del contrappunto; questo per farle capire quanto m’interessasse l’orchestra. La direzione mi ha interessato sin da subito perché metteva ordine a quello che per me, mentre ero completamente rapito dalla musica, rappresentava solo un libero sfogo al movimento gestuale e corporeo. Alla fine ho capito che il mio strumento era il mio corpo.” Secondo lei si può insegnare la direzione d’orchestra? “La direzione d’orchestra si può insegnare poco. Si possono insegnare le tecniche che evitano i problemi più grossi, ma se uno non possiede già di suo la capacità di comunicare con l’orchestra è quasi impossibile poterglielo insegnare. ” A tale proposito mi viene in mente il nome di un grande e indimenticabile didatta come Franco Ferrara… “Certo. Lui sarebbe stato secondo Arturo Toscanini il più grande direttore di tutti i tempi, ma aveva l’insormontabile problema degli attacchi epilettici che gli venivano mentre dirigeva in pubblico. Lui era una persona sana, ma la musica lo prendeva così completamente da scatenargli un autentico collasso di neuroni.” Lei si occupa da tempo di scrivere monografie sui più grandi direttori d’orchestra del passato. Penso a Furtwangler, Mitropulos, adesso è uscita la monografia, molto apprezzata su Karajan. Chi sarà il prossimo? “Carlo Maria Giulini senz’altro.” Il direttore d’orchestra del nostro tempo che preferisce? “Senza dubbio Carlos Kleiber che direi ha lasciato un’impronta straordinaria e decisiva in tutto quello che ha scelto (poco, in verità) e interpretato. Difficile anche solo immaginare che un giorno possa nascere qualcuno che sappia interpretare meglio di lui la Quarta sinfonia di Brahms, il Tristano di Wagner o il Rosenkavalier di Richard Strauss.”

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