Al Festival deIla Valle d'Itria il RE LEAR di Antonio Cagnoni: non un capolavoro, ma una piacevole sorpresa
L’anno scorso il recupero del suo “Don Bucefalo” fu considerato una piacevole sorpresa. Quest’anno il Festival della Valle d’Itria di Martina Franca, dopo l’inaugurale Orfeo ed Euridice gluckiano riveduto e (s)corretto da Johann Christian Bach per il San Carlo di Napoli, ha proposto l’ultima inedita opera di Antonio Cagnoni (Godiasco, 1828 – Bergamo, 1896). Musa ispiratrice del compositore lombardo niente di meno che la leggendaria tragedia di Shakespeare “Re Lear” (1606), ricostruita nel 1885 dal librettista Antonio Ghislanzoni. Quello che non riuscì a fare Verdi, e cioè mettere in scena l’amato “Re Lear”, riuscì al troppo presto poi dimenticato Cagnoni. Non si può parlare, dopo aver ascoltato e visto l’opera nel decoroso allestimento martinese, di un capolavoro ritrovato, ma certo di un tassello utilissimo per cogliere al meglio quel complesso periodo di transizione che va dal melodramma verdiano a Puccini e al verismo (Giordano, Leoncavallo, Cilea, Catalani, Ponchielli eccetera, eccetera), con reminiscenze wagneriane mutuate in Italia, per esempio, da Boito, Martucci e Franchetti. Nell’insalatona stilistica di Cagnoni, fine armonizzatore di melodie orecchiabili che rischiano però di sconfinare in zuccherosa banalità, c’è un po’ di tutto. L’opera in sé, va detto, scorre velocemente (poco meno di un paio d’ore e mezza, intervallo escluso) rispetto ad un testo che musicalmente richiederebbe maggiore introspezione psicologica ed un peso drammaturgico proporzionato al dramma shakespeariano. Rimpiangiamo dunque di non avere il Re Lear verdiano, ma siamo comunque rimasti piacevolmente sorpresi dall’artigianale abilità compositiva del signor Cagnoni a noi sino ad oggi colpevolmente ignota. L’allestimento proposto in questa prima mondiale ha richiamato la critica nazionale ed internazionale al gran completo. Interessante, anche se a tratti vagamente lugubre e sinistra, la regia di Francesco Esposito, che ha ben lavorato sul pregevole impianto scenico ricreato da Nicola Rubertelli: una ripida piattaforma dov’era collocato uno specchiante, interrogativo parallelepipedo. Complessivamente buona la prova della compagnia di canto in cui spiccavano con merito Costantino Finucci (un credibile Re Lear), Danilo Formaggia (un Edgaro dal timbro accattivante e dalla dizione esemplare) Serena Daolio (un’appassionata Cordelia), Eufemia Tufano (una stentorea Regana) e Domenico Colaianni (un riflessivo Conte di Kent, lontanissimo peraltro dai ruoli buffi che magistralmente interpreta), ben sorretta sul podio dalla solida, ispirata lettura del bravo Massimiliano Caldi. Eccellenti l’orchestra Internazionale d’Italia e il Coro Slovacco di Bratislava. Successo caloroso, con applausi anche a scena aperta per i protagonisti.
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