blog di informazione e critica musicale a cura di Alessandro Romanelli

mercoledì, dicembre 09, 2009

Straordinario successo per la Turandot di Puccini che ieri ha inaugurato la prima stagione lirica nel rinato Teatro Petruzzelli*

Quella di ieri a Bari era la serata-evento più attesa dell’anno. L’inaugurazione della prima stagione lirica nel rinato Teatro Petruzzelli, dopo il concerto di Fabio Mastrangelo che il 4 ottobre scorso aveva sì riaperto per la prima volta le sue porte, ma per un’occasione più che altro “istituzionale”, considerata la partecipazione in blocco di politici ed imprenditori di Bari e Provincia, oltre che della consueta sfilata di autorità civili e militari. Invece, ieri 6 dicembre giorno di San Nicola in un teatro esaurito da giorni, è stata allestita ed eseguita quella Turandot di Puccini, per la regia di Roberto De Simone e le scene di Nicola Rubertelli, che già avrebbe dovuto inaugurare il teatro esattamente un anno fa, ma che poi per il protrarsi della notissima “querelle” tra i ministri Bondi e Fitto da un lato ed il sindaco di Bari Emiliano dall’altro fu giocoforza data solo in forma di concerto in un padiglione della Fiera del Levante. Lo spettacolo, confezionato ad arte dal grande maestro napoletano si è allora potuto finalmente apprezzare in tutta la sua straordinaria visione creativa ed espressiva. De Simone porta, complice la maestosa scenografia di Rubertelli, il personaggio fiabesco di Turandot nella Cina arcaica, quella per intenderci che ha ispirato solo in parte lo stesso libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni; una Cina rimembrata da un’antica raccolta di racconti persiani Les mille et un Jour poi ripresa dall’orientalista Francois Pétis de la Croix che la pubblicò nel 1710. Ed ecco dunque una scena che ricrea un maestoso mausoleo dell’antichità che fa pensare non poco con quella verticale scalinata anche ai templi degli Incas e degli aztechi che abbiamo di recente visto nel sanguinario film “Apocalypto” di Gibson. Il coro è schierato su quella scalinata accanto a gigantesche statue di terracotta che rappresentano l’esercito Ming, di cui rispecchia peraltro le arcaiche divise. La gelida, sanguinosa crudeltà dell’androgina principessa Turandot viene giustificata dal fatto che lei è la reincarnazione di un’ava stuprata; da lì ne deriva un odio quasi congenito nei confronti di tutti i principi aspiranti alla sua mano; obbligati per questo a risolvere tre difficili enigmi oppure, in caso contrario, a rimetterci la testa. D’altro canto, questa encomiabile ricerca alle fonti originali di De Simone, secondo qualcuno, farebbe un po’ a pugni con la traduzione gozziana della favola ereditata dai librettisti pucciniani che invece mette in campo le smaglianti cineserie di una reggia fantasmagorica ed iperdecorata. Nel primo atto per esempio la cupezza, la tragicità delle luci sottolineano un clima quasi da brividi, da autentica notte horror. Belli nella loro variegata originalità “senza tempo” i costumi di Odette Nicoletti. Da un punto di vista squisitamente musicale, la direzione di Renato Palumbo ci sembra cogliere appieno tutti i colori geniali della tavolozza pucciniana, dove emergono tracce visibili della grande Arte musicale del primo Novecento e dei suoi più rappresentativi protagonisti: Debussy, Stravinskij, Bartòk e Schoenberg, in primis. In particolare, notevole risalto viene dato nella sua concertazione all’articolata e complessa sezione delle percussioni. L’Orchestra della Provincia di Bari ed i Cori della Fondazione Petruzzelli e delle Voci Bianche del conservatorio Niccolò Piccinni rispondono ottimamente alle sollecitazioni di Palumbo, garantendo un’eccellente tenuta dall’inizio alla fine dell’opera. L’opera termina senza il finale di Alfano, nè quello di De Simone, già previsto e da lui composto su precisa commissione della Fondazione Petruzzelli, ma non accettato nei mesi scorsi dalla Ricordi che pure aveva invece tranquillamente consentito a Luciano Berio di scriverne uno “ad hoc” diversi anni fa. Del cast vocale va innanzitutto sottolineata la prova eccezionale del soprano viennese Martina Serafin, una voce al platino che rinverdisce la tradizione di leggendarie Turandot del passato (si pensi a Birgit Nilsson e Inge Borkh) e di Roberta Canzian, una Liù di struggente, commovente applicazione scenica e rara partecipazione vocale. Il Calaf di Fabio Armiliato non è da meno, grazie ad un timbro squillante e sicuro e ad una dizione quasi perfetta. Una menzione particolare meritano, oltre al valido Timur di Alessandro Guerzoni, anche i tre ministri dell’Imperatore: Ping (il bravissimo Domenico Colaianni), Pang (Cristiano Olivieri) e Pong (Stefano Pisani). Applausi a scena aperta e numerose chiamate e ovazioni alla fine dello spettacolo per tutti i protagonisti, a suggello di una serata davvero da ricordare. * :pubblicato il 7 dicembre scorso su LSD MAGAZINE.COM

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